Ed eccoci giunte al momento del resoconto sull’incontro di venerdì scorso al Monastore di Officine culturali, con Samantha Viva. Sapevamo che l’argomento al centro dell’appuntamento si sarebbe potuto prestare ad un interessante e dinamico dibattito e così è stato, grazie anche alla partecipazione di una rappresentanza della comunità afghana a Catania che ha portato il racconto della propria esperienza.
Samantha, collega e amica delle Matte, ha cominciato a raccontare la propria esperienza partendo dal Master che l’ha iniziata alla vita da inviata in area di crisi: «Durante il corso – ha spiegato – ci hanno insegnato di tutto, compreso come avremmo dovuto comportarci se fossimo stati presi prigionieri. E’ stato lì che molti colleghi hanno capito che questo genere di vita non faceva per loro». Il master, organizzato dalla Fondazione “Maria Grazia Cutuli” Onlus, ma realizzato in collaborazione con molti altri enti fra cui anche l’Università Tor Vergata di Roma, i Ministeri della Difesa e degli Esteri, la Protezione civile, la Croce Rossa italiana.
Dopo questa introduzione, necessaria a spiegare che non ci si può improvvisare giornalisti (figurarsi – a maggior ragione – come inviata in area di crisi), Samantha ha cominciato a raccontare la propria esperienza da “embedded” in un territorio – l’Afghanistan dell’ovest – dove è in atto la cosiddetta “transition“. Samantha ha sottolineato che l’aver vissuto fianco a fianco con i militari dell’esercito italiano non le ha affatto impedito di raccontare le storie e le esperienze di cui è stata protagonista, anzi. La presenza dei militari ha sicuramente migliorato lo stato di garanzia e sicurezza nel quale Samantha è vissuta durante le tre settimane trascorse in Afghanistan: «Bisogna capire – ha proseguito – che nulla, in Paesi come l’Afganistan è semplice. Neanche raggiungere la propria destinazione; non ci sono autobus… E il territorio che si deve attraversare è desertico e pericoloso. Oltretutto è indispensabile avere una rete di contatti solidi e fidati per potersi destreggiare indipendentemente. Cosa che – alla prima esperienza – chiaramente non si possiede».
La scelta di Samanta Viva di suddividere il testo in tre sezioni (la prima più lirica dedicata alle persone e ai progetti che ha conosciuto, e che ha voluto raccontare; la seconda più storico-politica dedicata alla geopolitica del territorio; la terza più tecnica, relativa alla missione Isaf e al Sistema Italia) è stata legata all’esigenza di raccontare davvero un processo in atto e tutte le interviste raccolte che all’interno di un “semplice” articolo di giornale sarebbero state sacrificate.
Ma “Afghan West. Voci dai villaggi” è anche il racconto di un territorio frammentato, anche linguisticamente. Un problema con cui un giornalista deve fare i conti: «Non si è trattato solo di superare le barriere linguistiche costituite dai tanti dialetti diversi che si parlano all’interno dei villaggi, ma anche di essere certa che quanto veniva tradotto dall’interprete che ci affiancava fosse corrispondente al vero. Io per potere verificare il lavoro svolto sul campo ho registrato tutto e l’ho fatto tradurre a 5/6 interpreti diversi ogni volta, in modo da potere confrontare le traduzioni. Eppure mi sono comunque scontrata con molte difficoltà. Quando ho intervistato il generale afghano Taj Mohammad Jahed, per esempio, l’interprete ha cambiato una delle mie domande. Tornata a casa ho quindi contattato telefonicamente il generale per porgli “nuovamente” quella domanda che per me era di fondamentale importanza».
Nonostante tutte le difficoltà incontrate, Samantha Viva ha anche annunciato che a breve ripartirà. Non è ancora certa la data, ma l’inizio del 2014 segnerà l’avvio di una nuova avventura alla scoperta di nuove storie, ma anche e soprattutto per «verificare – ha concluso Samantha – che sviluppo abbiano avuto le storie che ho già cominciato a raccontare».
L’incontro si è concluso con una bella notizia. A breve, infatti, “Afghan West. Voci dai villaggi” sarà insignito del Premio Unuci 2013 per la sezione giornalismo.