Non siamo diventate fashion blogger, ma oggi parliamo di Stile. Quello con la S maiuscola. E non intendiamo nel calcare le passerelle, o nel sembrare atletiche e scattanti anche su un tacco 12. Parliamo di questioni di stile letterario dove Raymond Queneau è davvero maestro. Il suo “Esercizi di Stile” me lo regalò la mia mamma, ormai tanti anni fa. ERo ancora al liceo e stavo cercando di elaborare una mia personalissima teoria su quante possibilità esistano per raccontare un fatto, una storia… Ma anche per chiedere un favore, porgere una domanda. Cose così. E mia mamma, per il mio compleanno, mi regalò questo libro. Dalla quarta di copertina non ero riuscita a carpirne il contenuto, non ero riuscita a farmi un’idea di cosa potessero contenere quelle pagine… Quindi contro ogni mia regola (per fortuna ho deciso di cancellare la parola autoimposizione dal mio vocabolario) sospesi la lettura de “Gli indifferenti” di Alberto Moravia (che, tra le altre cose, non mi stava prendendo molto all’epoca, perché lettura imposta) e cominciai il libro nuovo.
La trama è una sola storia, ma raccontata in 99 modi diversi… Ciascuno con uno specifico stile di narrazione. Prima di navigare un po’ di più fra le sue pagine, mi piacerebbe sollevare una questione di traduttologia. Tradurre questo libro, infatti, deve essere stato davvero difficile: un’impresa. Non soltanto perché – inevitabilmente legati alla lingua francese -, ma anche per via delle difficoltà nel tradurre il talento dell’autore. Non è un caso, allora, che la traduzione dell’edizione italiana sia stata curata nel 1983 da Umberto Eco (che, insieme all’editore Einaudi, mantenne però la traduzione a fronte del testo originale in francese). E non è un caso neanche che Eco approfondisca la questione nell’Introduzione al libro, dove segnala le modifiche e le aggiunte che ha necessariamente dovuto apportare (una legata al gergo francese, una sull’omofonia; in più, Eco ci regala due – invece di una – versione degli Omoteleuti e un lipogramma per ogni vocale). La nuova edizione contiene anche una postfazione di Stefano Bartezzaghi (2001).
Avrete già capito che il libro non è dato dalla trama, che anzi è piuttosto banale. La storia narrata, infatti, racconta di un uomo che trovandosi a bordo di un autobus affollato (intorno a mezzogiorno) si lamenta di e con chi lo spinge. Eccovi l’originale, la prima versione: «Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore piú tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in piú al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché».
Ma veniamo alle 98 varianti stilistiche. Perché Queneau, da questo banale episodio del quotidiano spicca voli vivificatori, realizza acrobazie linguistiche giocose ed esperimenti “pericolosi” e sfrenati, costruisce paradossi lessicali e linguaggi musicali (si “vocifera” che Queneau abbia concepito questo libro ascoltando le variazioni sinfoniche). Ci sono varianti enigmistiche (con anagrammi, apocopi, aferesi, lipogrammi…) e quelle retoriche (con litoti, metafore…), ma si passa per quelle con gerghi e lingue maccheroniche (compresa una in latino), quelle con i linguaggi settoriali. Ci sono contaminazioni linguistiche, linguaggi quotidiani o ampollosi… E anche qualche variante di tipo testuale (tema, teatro, sonetto, telegramma…). Alcune fanno ridere, altre sorridere, fra le follie verbali che oggi – in tempi di abbreviazioni per sms, facebook, twitter, etc. etc. – forse stupiscono meno che nel 1992 (quando mi è stato regalato il libro).
Non si tratta, però, di un gioco fine a se stesso. E’ un omaggio al linguaggio, pare chiaro. Ma le 98 varianti linguistiche sono anche 98 versioni diverse di raccontare, e dunque, interpretare un episodio. Queneau è un po’ un esploratore, un po’ un viaggiatore, un po’ uno scienziato pazzo davanti a mille ampolle piene di parole fumanti. Il tutto per un libro che è un poliedro di realtà possibili, uno zocchihedron, (che non è proprio un poliedro con 100 facce, quello che in spagnolo si chiama “hecatoedro”, ma un “dado” da 100 facce all’interno di una sfera), un insieme di significati diversi che aumentano sempre di più, che vivono nell’accumulo e dell’accumulo di informazioni che man mano rastrelliamo. Proprio come dentro una casa degli specchi dove la propria immagine viene moltiplicata all’infinito. Come sostiene Eco nella sua introduzione: «Nessun esercizio di questo libro è puramente linguistico, e nessuno è del tutto estraneo a una lingua. In quanto non è solo linguistico, ciascuno è legato all’intertestualità e alla storia. In quanto legato a una lingua è tributario del genio della lingua francese. In entrambi i casi bisogna, più che tradurre, ricreare in un’altra lingua ed in riferimento ad altri testi, a un’altra società, e un altro tempo storico».
E adesso, se volete, potete fare quello che Michael Ende desiderava si facesse con la sua “Storia Infinita”, ossia continuare il racconto tutte le volte in cui si trovava la frase “…ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta”. Potete continuare a giocare, con la storia di Raymond Queneau o con un’altra inventata da voi. Le interpretazioni possibili, e quindi i modi di scrivere e raccontare – del resto – sono davvero infinite.
C
(Esercizi di Stile di Raymond Queneau, Einaudi, pagg. 320, euro 12,50)