L’ultima volta che ho riletto questo libro è stato poco più di un anno fa, quando mi sono preparata anche “psicologicamente” al viaggio in Australia: una delle tre mete del viaggio di nozze mio e di Marzio (insieme a Hong Kong e alla Polinesia francese).
E, ovviamente, considerata la meta, dallo scaffale non potevo non pescare “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin. L’avevo letto da adolescente, incuriosita dalla singolarità del fatto che Bruce Chatwin, eterno viaggiatore morto proprio a causa di una malattia contratta in uno dei suoi viaggi, si domandava perché gli uomini invece di stare fermi se ne vadano in giro da un posto all’altro. Ma Chatwin, come si può evincere dagli avvenimenti della sua vita e intuire dalle notizie autobiografiche che infarciscono i suoi romanzi, era un uomo atipico. Come giornalista inizia a girare il mondo: Africa, Afghanistan, Unione Sovietica, America del Sud e Australia… Ed è proprio in questi luoghi che ambienta i suoi romanzi.
“Le vie dei canti” (un libro al confine fra il romanzo, il saggio, l’autobiografia e il diario) racconta in particolare di una tradizione aborigena. Secondo la popolazione autoctona australiana la terra è attraversata da strade invisibili che si possono seguire solo se si conosce un canto che funge da guida. “Le vie dei canti” è un diario, perché riferisce di un viaggio; è un saggio, perché l’autore espone le proprie teorie sul nomadismo, sulle società sedentarie fino ad affrontare problematiche antropologiche… E’ un’autobiografia ed è un romanzo, per non dire persino l’esempio dell’impossibilità di scrivere un romanzo tradizionale. E’ giornalismo (e dunque anche storia del giornalismo) perché racconta di un Paese che cambia, dove gli indigeni rischiano di diventare stranieri perché la geografia non è più quella segnata dalle “vie dei canti”, ma attraversata da linee ferrate, strade, cartelli che gli aborigeni non possono leggere. Se non l’avete letto, fatelo. Anche se non meditate di andare in Australia, dove sono bravissimi a far vivere sulla pelle la sensazione di un’epoca che quasi non c’è più. Quando Marzio ed io eravamo nel deserto, ai piedi di Uluru, monte sacro agli aborigeni, i canti tradizionali risuonavano nelle gole scavate dall’erosione e davano l’illusione che in quel momento qualcuno stesse ancora vivendo in quelle gole e che da un momento all’altro quelle stelle – che solo nel deserto possono apparire così vicine – potessero raccontare ancora le storie del Dreamtime, quando gli Antenati (esseri soprannaturali in parte uomo e in parte animale) percorrevano le vie dei canti.
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(“Le vie dei canti” di Bruce Chatwin – Adelphi, pagg. 390, euro 12)