Per la nostra rubrica dei Matti per le Matte da leggere, torna Leonardo (Dino) Lodato. Torna in tutti i sensi, non solo sulle pagine di questo blog. Torna perché al rientro dal suo viaggio a Praga, per andare ad seguire il concerto dei Kraftwerk (come ci aveva annunciato in un passato post, raccontandoci del libro che stava leggendo per prepararsi all’evento). E torna con un libro che è un po’ un suo #nostalgicreader e con una riflessione che si lega a una brutta pagina di cronaca recente. Ma non vogliamo anticipare altro. Vi lasciamo alle parole di Leon.
«… Perché quando io leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcol, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari…».
Illuminante Bohumil Hrabal. Illuminante nella sua genialità nascosta (non troppo) e ricamata nella sottile trama che lega ogni parola, ogni frase, ogni paragrafo, ogni capitolo della sua “Solitudine troppo rumorosa“. Quella stessa solitudine rinchiusa nel big bang di una folla seduta ai tavoli della sua birreria preferita nel pieno centro di Praga, a Stare Mesto. Quella U Zlatèho Tygra, la Tigre d’Oro, dove sono voluto entrare, prima meta di un viaggio nella magica, scura, oscura e allo stesso tempo disneyana, turisticamente volgare capitale della Repubblica Ceca. Perché se un illuminato ex capo divenuto poi, e ancora adesso, amico, maestro di vita e di penna, un giorno non mi avesse lasciato sulla scrivania questo volumetto Einaudi di poche centinaia di pagine, oggi non sarei lì, davanti ad una birreria, in una giornata di timido sole dicembrino, ad aspettare vanamente che lo spirito di Hrabal si potesse fare vivo dentro di me così come accaduto tanti anni fa mentre nuotavo nel liquido amniotico delle sue parole, mentre mi lasciavo avvolgere, sconvolgere, stringere, stritolare, dalle (ec)citazioni di quei libri destinati al macero, deportati in una pressa in quel deposito di carta vecchia di via Spálená.
Lo ricordo bene quel libro. E ricordo le parole del mio “capo”: «Lo amerai. Fammi sapere cosa ne pensi». L’ho letto tutto d’un fiato. E l’ho riletto con lentezza nella speranza di amalgamare nei miei pensieri la scrittura di Hrabal. L’ho riposto nel suo posticino in libreria. “Parcheggiato” tra Kafka e Tolstoj, Joyce e Bene. Ma non l’ho mai dimenticato.
Fino a quando, tornando da Praga sbronzo di Becerovka e “pivo” consumate in fumose e maleodoranti birrerie tra Mala Strana e Karlàk, l’ho subito ripreso in mano, trovandoci dentro un vecchio ritaglio di giornale. E mentre nella mia immaginazione fresca di viaggio, “ripassavo” la città, la mia mente rileggeva, come un muscolo involontario, le parole di Hrabal che, ai compagni di bevute, confidava «il progressivo impoverimento di Praga, testimoniato dal sorgere improvviso e continuo di fast food e dozzinali ritrovi uguali in ogni parte del mondo sia per cibo che per arredi che per squallore, che andavano soppiantando le storiche birrerie…».
Si rivoltava già allora Bohumil. Si rivolta ancora oggi nella tomba. Povera Praga! E la sua magica atmosfera sfregiata dalla globalizzazione, dalla pizza napoletana, dai massaggi Thai e dalle cineserie take away. E i nostri sguardi lì, di fronte all’ingresso della Tigre Bianca, che s’incrociano velocemente. E dai suoi occhi bronzei lo Scrittore sembra voler dire qualcosa. Ma siamo circondati da una solitudine troppo rumosorsa. La solitudine dei romantici, dei sognatori. Di quelli che amano poter vivere in una solitudine popolata di pensieri «perché io sono un po’ uno spaccone dell’infinito e dell’eternità e l’Infinito e l’Eternità forse hanno un debole per le persone come me…».
P.S. Ero andato a Praga per seguire un concerto. I Kraftwerk, gli inventori della musica elettronica, del Kraut Rock. Era per questo che mi ero documentato leggendo con attenzione il libro di David Buckley “Kraftwerk – Publikation” (Arcana). Ascoltando sera dopo sera quei brani che hanno accompagnato la mia adolescenza, da Trans Europe Express a The Model, da Radio Activity a The Robots. Mi sono ritrovato lì, in prima fila, al Forum Karlìn, il tempio ceco della musica dal vivo. Dei Kraftwerk originali, la Fabbrica dell’Energia, è rimasto soltanto il buon Ralf Hutter. Lo accusano di tirare avanti l’elektro-carretta soltanto per raggranellare qualche euro per la vecchiaia. Eppure, questo Kraftwerk 3-D è uno spettacolo che va oltre la musica. E’ arte allo stato puro, è energia che si sprigiona e che coinvolge l’audience in una crapula mediatica. E’ estasi e tormento. Fino a sfiorare la sindrome di Stendhal.
Eravamo qualche migliaio. Cechi, italiani, tedeschi. Uomini e donne. Giovani e meno giovani. Tutti legati da un comune denominatore: l’affetto per i Kraftwerk. ma anche, e soprattutto, dalla voglia di ascoltare musica tutti insieme. Perché no, noi continuiamo a viaggiare e ad andare ai concerti. Lo facciamo e lo faremo ancora, finché potremo, anche per loro, per Valeria e per tutte le vittime del vigliacco assalto al Bataclan. Lo faremo ancora nel nome di quelli come noi che hanno perso la vita nel modo più assurdo. Scusate lo sfogo ma i fanatici, gli assassini, chi si arroga il diritto di spezzare la vita nel nome di una religione inesistente non ci fa paura. No.
Leonardo (Dino) Lodato
(Una solitudine troppo rumorosa, Bohumil Hrabal, Einaudi)