Quando ero poco più che un’adolescente, era il 1996 e frequentavo il corso di Letteratura inglese alla facoltà di Lettere e filosofia di Catania, avevo un paio di jeans elasticizzati e strappati che avevo deciso di rendere una sorta di collazione ambulante di alcune frasi – per me particolarmente significative – colte qua e là lungo le mie letture. La prima frase ad essere vergata a mano su quel paio di pantaloni che volevano essere un po’ il racconto di me in quella fase della mia vita fu “Chiudete a chiave le vostre biblioteche, se volete. Ma non c’è cancello, né serratura, né chiavistello che voi possiate mettere alla libertà del mio pensiero”. Niente di più vero, direte voi… Ma dove vuoi arrivare?
Queste sono parole del pugno e della mente di Virginia Woolf che pescai proprio in uno fra i testi obbligatori per sostenere l’esame di Letteratura inglese (non so perché fosse obbligatorio, visto che in effetti non l’ho mai visto chiedere a nessuno): “Una stanza tutta per sé“.
Un saggio che ha il sapore di un romanzo, di un diario, di una riflessione a pagine aperte. Un libro che mi ha davvero cambiato la vita e che ha cominciato a farmi riflettere sul concetto di libertà intellettuale.
“Una stanza tutta per sé”, pubblicato per la prima volta nel 1929 si basa su due conferenze tenute da Virginia Woolf all’Arts society di Newnham e all’Odata di Girton, due college femminili dell’Università di Cambridge. Il tema al centro delle conferenze era “la libertà intellettuale dipende dalle cose materiali. La poesia dipende alla libertà intellettuale”. Un concetto che nella sua semplicità ha dato il la a Virginia Woolf per raccontare la storia letteraria delle donne, dando vita a una esaustiva dissertazione sull’argomento e a una riflessione sul tema donne e creatività che si dipana mentre l’autrice ripercorre una giornata-tipo di una donna di epoca contemporanea. Ma questo è solo un pretesto per dare al lettore uno spaccato della condizione della donna intellettuale del suo tempo e – pertanto – anche un manifesto della condizione femminile.
Il titolo del saggio è la risposta che la Woolf dà a una domanda che fra le righe si pone: “Perché prima di un certo periodo storico, non ci sono donne scrittrici?”. E la risposta è semplice: “Perché non avevano una stanza tutta per sé”. E “stanza” non è solo un luogo fisico, ma anche uno spazio mentale per regalarsi piccole libertà (come leggere, scrivere, dedicarsi all’arte, alla riflessione, al pensiero). Uno spazio fisico precluso che guadagna i contorni di una logica: l’arte non è conciliabile con i tempi di una giornata (e, soprattutto, con le incombenze di questa). Quindi senza una “stanza” non si va da nessuna parte.
Ma non crediate che si tratti di un pamphlet polemico, piuttosto di una pacata riflessione (ancora oggi validissima). L’impostazione del saggio è come una carrellata avanti sulla condizione della donna-artista, fatta attraverso la voce di Mary, che diventa il vero e proprio emblema delle donne obbligate al silenzio. Un viaggio attraverso questo silenzio che nei secoli è (per fortuna) diventato sinonimo di raccoglimento, punto di partenza necessario per potersi dedicare all’arte.
Il libro lo ricordo perfettamente, così perfettamente che potrei averlo terminato ieri. Quei jeans (che i miei genitori odiavano così tanto, trovavano brutti e volgari fra strappi e scritte da street art) li conservo ancora, non li indosso più (non so neanche se ci entri ancora… E vi farò sapere), ma spesso li osservo come una reliquia: come memoria di quello che forse fu il mio primo gesto di libertà intellettuale (e non solo).
(Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, Einaudi, pagg.238, euro 12)
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